CIVILTA’ SENZA FUTURO

La storia ci insegna che le civiltà più progredite del passato, dopo aver conosciuto il culmine del loro sviluppo, si sono avviate verso un processo irreversibile di decadenza .

Analogo quindi il destino della civiltà occidentale, che secondo alcuni esperti è già avviato.

L’antropologa Ida Magli definisce la civiltà europea una cultura “viva-morta”, ovvero una cultura che, anche se a noi contemporanea, appare morta.

Se solo volgiamo lo sguardo agli anni settanta del secolo scorso, risulta evidente quanta distanza ci separi in termini di costume e di cultura. A fronte di una imponente produzione tecnologica e scientifica degli ultimi quarant’anni, si contrappone l’aridità della produzione filosofica letteraria e artistica, sostituita da indici di borsa, pubblicità e mercato.

Oggi conta consumare, quasi divenendo una condizione necessaria per esistere; consumiamo con voracità tutto ciò che all’apparenza ci soddisfa, ma che al tempo stesso svuota di contenuti la nostra esistenza. Consumiamo cibo, mode, oggetti, vita, in una frenesia che non lascia ( forse volutamente) il tempo per pensare.

E’ proprio questo, il pensiero, la riflessione, marcano la loro assenza del nostro quotidiano, sostituiti dalla fretta e da una bulimica ossessione di correre per consumare e consumare per essere.

I consumi, sempre più irrazionali proprio perchè privi di pensiero, diventano l’indice del benessere, in una corsa senza fine che determina infelicità laddove si interrompe. Non più il pensiero quindi alla base del nostro vivere ma il “non pensiero”, dove i valori di borsa si sostituiscono ai valori veri, quelli della famiglia e della comunità, e dove le certezze di un tempo lasciano il posto alle nuove nevrosi.

La perdita di valori equivale alla perdita di identità e quindi di futuro, la stessa accondiscendenza mascherata da buonismo e altruismo che la vecchia Europa ha nell’ accettare supinamente l’inserimento di nuove culture e nuove religioni che gli immigrati portano con sé, dimostra quanto poco profonde e fragili siano le nostre convinzioni.

L’Italia non è più quella, perdiamo tradizioni e nel perderle perdiamo la memoria stessa del buon costume, del rispetto per gli anziani, per gli educatori in una sorta del “ tutto è permesso” perchè così fan tutti.

Le fiere di paese, una volta lo specchio delle produzioni locali, si trasformano in fiere del made in China, il ciao a tutti gli sconosciuti, anziani compresi, è sinonimo della perdita di coscienza delle gerarchie, ma soprattutto dell’educazione e del rispetto; per non parlare della consuetudine di madri “suvvate” (munite di suv) che, anziché incoraggiare la giusta severità educativa degli insegnanti, li contestano per aver momentaneamente sequestrato il cellulare al loro figlio.

Insomma una società dove il futuro è il giorno dopo, quando non è subito, dove la pazienza di attendere il proprio turno viene superata dalla fretta di pretendere, e dove il sapere è considerato superfluo perchè non monetizzabile.

Una società “viva-morta” che non può avere futuro perchè non vive il presente e ha dimenticato il passato, e dove pur nella convinzione di vivere, della nostra esistenza non resta e non resterà traccia, dove la ricerca del piacere come unico obbiettivo quotidiano non fa che alimentare angoscia e vuoto.

Certo, il mondo contemporaneo non può essere considerato tutto negativo, ma nel bilancio delle positività e negatività del vivere occidentale vi sono i presupposti di un declino che solo un totale ripensamento della nostra esistenza può invertire, superando quello che Bourdieu definisce il “pensiero unico”dei comandamenti del libero mercato.

Ritornare quindi alla tradizione, che significa educare le future generazioni ai valori, alla cultura, alla riflessione e al senso di comunità, non in antitesi al progresso, ma rendendolo meno impersonale e stimolandone i contenuti. Insomma, un ritorno al passato, riprendendo i temi che sono stati e devono ritornare ad essere il fondamento della nostra civiltà.

Enrico Mattinzoli (09.02.2013)

 

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