«SÌ AL CAPITALISMO SE IL FINE È L’UOMO» dicembre 2011

Etica ed economia. Il presidente di Intesa Sanpaolo e il presule a confronto nella sede dell’Associazione Artigiani.

Il presidente Mattinzoli: «Su caduta dei profitti e sovra produzione purtroppo aveva ragione Marx» Il turbocapitalismo. Le encicliche papali. La dottrina sociale della Chiesa. La speculazione senza regole. L’utilitarismo e la solidarietà.

E, alla radice di tutto, il lavoro e, ancor di più, l’uomo. Benvenuti a questo viaggio alla scoperta del valore, che forse non a caso richiama tanto l’economia quanto l’etica. Benvenuti in questo itinerario sull’orlo dell’abisso, o magari invece verso la flebile luce alla fine del tunnel. Con due guide fuori dal comune: Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo e monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia, ospiti ieri dell’Associazione artigiani bresciani.

«Il lavoro fa crescere l’uomo – dice il vescovo – lo rende più capace di collaborare con gli altri e più responsabile. Avrà più sogni e progetti a lunga scadenza, sarà più ricco di desideri e creatività, ma anche più capace di controllare i propri impulsi». «La crisi che viviamo – gli fa eco Bazoli – deriva dal prevalere di una logica utilitaristica e di una esasperazione del sistema capitalistico che porta inevitabilmente a sottovalutare il contributo dell’uomo nel lavoro e nell’economia. Quando ci si dimentica che, alla base del successo dell’economia, c’è il lavoro dell’uomo, si arriva alle conseguenze che abbiamo sotto gli occhi».

C’era una frase della Populorum progressio di Paolo VI (1967), come stazione di partenza di questa escursione alle radici della crisi: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Ma Giovanni Bazoli ha voluto ricordare due encicliche di altri due papi: «Nella Caritas in veritate di Benedetto XVI si fa esplicito riferimento alla Populorum progressio . Ma nell’enciclica di papa Montini, che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere di persona, c’era ancora la presa di distanza della Chiesa da entrambi i sistemi, quello capitalista e quello comunista. Come se la Chiesa fosse alla ricerca di una terza via.

Questa visione viene superata solo dalla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, arrivata dopo la caduta del Muro di Berlino. In essa si riconosce la validità dell’economia di mercato, che va però migliorata. Questa critica dall’interno del sistema, che sostituisce la ricerca di una terza via, sta producendo risultati fecondi. Come appunto la Caritas in veritate di papa Ratzinger».

Per il capitalismo vale, secondo Bazoli, quel che Churchill diceva della democrazia: è il peggior sistema possibile, eccetto tutti gli altri. Ciò non significa che, nel «turbocapitalismo» di oggi, tutto liberismo e individualità, non ci siano dogmi e credenze da superare: «Il cosiddetto Washington consensus si fonda sul dogma della creazione di valore e sul presupposto, che si è storicamente rivelato inaccettabile, che l’arricchimento anche illimitato di pochi avrebbe avvantaggiato tutti».

Sarà perché dice di non essere un banchiere, che quello del presidente è un lavoro diverso, ma Bazoli non risparmia le critiche agli istituti di credito: «Se anche a una banca si chiede di creare valore per soddisfare gli azionisti finirà, come hanno fatto le banche anglosassoni e, per fortuna, molto meno quelle italiane, per dedicarsi all’attività finanziaria, con strumenti sempre più sofisticati, come i derivati. Le banche, invece, dovrebbero tornare al loro compito tradizionale: raccogliere risorse per poi metterle a disposizione del sistema produttivo. In Italia, soprattutto delle piccole e medie imprese».

Parole che devono essere suonate soavi alle orecchie della platea di artigiani, alle prese con una crisi che al presidente Enrico Mattinzoli ha fatto persino scomodare Marx: «Le sue previsioni su sovrapproduzione e caduta tendenziale dei profitti si stanno rivelando azzeccate».

Come se ne esce? Per il vescovo Monari tornando al concetto di bene comune come lo definisce la dottrina sociale della Chiesa: «Il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo». Il che vuol dire imparare anche a «rinunciare ad alcune soddisfazioni e a scegliere ciò che è bene non solo per noi, ma anche per le generazioni future. In termini ambientali, ad esempio».

E se per monsignor Monari bisogna rimettere ordine nella nostra scala di valori («Anche l’apparire è un valore, ma non può essere posto prima dell’essere»), per Bazoli bisogna superare quello che lui chiama il Rubicone. O, se preferite, il peccato originale del turbocapitalismo: «Si è teorizzato che l’ homo oeconomicus andrebbe separato dall’uomo politico o sociale. Al primo si dovrebbero riconoscere solo interessi egoistici, mentre quelli solidaristici sarebbero riservati al secondo. A mio avviso, questa visione antropologica è di una incoerenza assoluta. A chi sostiene che l’economia debba solo preoccuparsi di creare ricchezza, perché spetta alla politica distribuirla, obietto che gli interessi solidaristici debbono invece entrare anche nell’economia. Realizzare la perfetta uguaglianza tra gli uomini è impossibile. Probabilmente anche sbagliato. Ma ridurre la disuguaglianza è imperativo».

(CORRIERE DELLA SERA – LUCA ANGELINI)

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